Siamo abituati a pensare alla Terra come a qualcosa di separato da noi: un pianeta che ci ospita, un ambiente che possiamo modificare, sfruttare, talvolta proteggere. Ma cosa succede se siamo andati oltre? Se l’umanità ha alterato così profondamente il funzionamento del sistema terrestre da aver cambiato epoca geologica?
Benvenuti nell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano è diventato una forza geologica, capace di trasformare il clima, gli oceani, la composizione dell’atmosfera, la biodiversità e i cicli fondamentali della vita.
Ma cos’è davvero l’Antropocene? E perché è una delle parole chiave per capire il nostro tempo?
Un termine che scuote la geologia
La parola Antropocene è stata proposta per la prima volta nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, durante una conferenza scientifica. Crutzen si interruppe spazientito mentre si parlava dell’Olocene (l’epoca geologica iniziata circa 11.700 anni fa, alla fine dell’ultima glaciazione), e disse: “Ma non siamo più nell’Olocene. Siamo nell’Antropocene!”
Da allora, il termine ha fatto il giro del mondo, travalicando la geologia per diventare una categoria culturale, politica, filosofica. Perché parlare di Antropocene significa affermare che l’essere umano ha modificato così profondamente il pianeta da lasciare tracce misurabili negli strati geologici: un cambiamento senza precedenti nella storia della Terra.
Quando inizia l’Antropocene?
Non esiste un consenso definitivo sulla data d’inizio dell’Antropocene, e questo è già un segnale della sua complessità.
Alcuni studiosi fanno risalire l’inizio al Neolitico, con l’invenzione dell’agricoltura e la progressiva domesticazione degli ecosistemi. Altri puntano alla Rivoluzione industriale (seconda metà del Settecento), con l’uso massiccio del carbone e la crescita esponenziale delle emissioni di CO₂.
Un altro gruppo di scienziati propone come momento simbolico il 1945, con l’esplosione della prima bomba atomica e l’inizio della cosiddetta “Grande Accelerazione”: un periodo in cui l’impatto umano sulla Terra ha subito un’impennata in quasi ogni parametro misurabile – energia, popolazione, urbanizzazione, consumo, inquinamento, plastica, estinzione di specie.
Nel 2023, il gruppo di lavoro sull’Antropocene della Commissione Internazionale di Stratigrafia ha proposto ufficialmente il 1950 come anno di riferimento, identificando nel lago Crawford (Canada) il sito geologico che registra chiaramente questo passaggio.
I segni dell’Antropocene
Quali sono le impronte dell’uomo sul pianeta che giustificano l’idea di una nuova epoca geologica? Eccone alcune, tra le più evidenti e sconvolgenti:
- Emissioni di gas serra che alterano il clima globale, con conseguenze su scioglimento dei ghiacci, innalzamento dei mari, eventi estremi.
- Perdita di biodiversità a un ritmo paragonabile a una estinzione di massa (la sesta, secondo molti scienziati).
- Diffusione globale della plastica, che oggi si trova nei mari, nei suoli, nell’aria, perfino nel corpo umano.
- Contaminazione radioattiva negli strati sedimentari terrestri, derivante dai test nucleari.
- Antibiotici, fertilizzanti e pesticidi che alterano profondamente i cicli naturali di azoto e fosforo.
- Megacittà, infrastrutture e miniere che hanno rimodellato i paesaggi, cambiato i flussi idrici e modificato l’erosione.
In breve: il pianeta non funziona più come prima. L’equilibrio tra biosfera, atmosfera, idrosfera e geosfera è stato modificato dalla specie umana, in un modo che nessun’altra specie era mai riuscita a fare.
L’Antropocene è di tutti?
La parola Anthropos, in greco, significa “uomo” o “essere umano”. Ma quale umanità ha causato tutto questo? Davvero siamo tutti ugualmente responsabili?
Molti studiosi e attivisti criticano l’idea che l’Antropocene sia “universale”. Non è l’intera umanità ad aver avuto lo stesso impatto, ma un preciso modello di sviluppo economico e industriale, nato in Europa e poi esportato nel resto del mondo.
Da qui derivano proposte alternative per definire la nostra epoca:
- Capitalocene, per sottolineare il ruolo del capitalismo come sistema economico predatorio.
- Occidentalocene, per evidenziare l’origine eurocentrica del disastro ambientale.
- Tecnocene, per mettere al centro l’impatto della tecnologia sul mondo naturale.
- Plantationocene, per richiamare lo sfruttamento sistemico di terre e persone durante l’epoca coloniale.
Tutte queste proposte vogliono spostare il focus: non siamo genericamente “noi” a cambiare il pianeta, ma un certo modo di vivere, produrre e dominare.
Vivere nell’Antropocene: tra trauma e consapevolezza
Accettare di vivere nell’Antropocene significa fare i conti con un trauma collettivo. Il mito dell’uomo al centro dell’universo si ribalta: ora siamo al centro, sì, ma come agenti del disastro. L’Antropocene è anche una crisi identitaria: ci obbliga a ripensare il nostro posto nel mondo, la nostra relazione con la natura, il nostro concetto di progresso.
Allo stesso tempo, è anche una chiamata alla consapevolezza. Se abbiamo avuto il potere di alterare il pianeta, forse abbiamo anche la responsabilità – e la possibilità – di cambiarne la traiettoria.
Ma attenzione: non basta “salvare il pianeta” come fosse un’entità separata. Il pianeta continuerà a esistere anche senza di noi. La vera sfida è salvare le condizioni che rendono la Terra abitabile per l’umanità e le altre specie viventi.
Una questione di giustizia
L’Antropocene è anche una questione di giustizia intergenerazionale e globale. Le comunità che hanno contribuito meno alla crisi climatica (i paesi più poveri, le popolazioni indigene) sono spesso quelle più colpite. E le generazioni future erediteranno un mondo più instabile, più caldo, più difficile da vivere.
Parlare di Antropocene significa allora interrogarsi sul potere, sulla responsabilità, sulla redistribuzione degli oneri e dei benefici. Chi decide? Chi paga? Chi agisce? Chi resta inascoltato?
Oltre l’Antropocene?
Alcuni autori propongono una visione più radicale: non solo riconoscere l’Antropocene, ma superarlo. Immaginare una nuova relazione tra esseri umani e natura, non più fondata sul dominio e sullo sfruttamento, ma sulla coesistenza, sul rispetto, sull’equilibrio.
Da qui nascono nuove parole e nuovi immaginari: Simbiocene, Ecocene, Chthulucene. Tentativi – ancora teorici, spesso utopici – di pensare oltre la catastrofe. Perché ogni epoca, anche la più cupa, può contenere il seme di un cambiamento.
Abitare l’Antropocene con lucidità
Non possiamo tornare indietro. Ma possiamo scegliere come stare in questo tempo. Possiamo continuare a ignorare i segnali, o possiamo imparare a leggerli. Possiamo negare le nostre responsabilità, o possiamo prendercene carico. Possiamo lasciarci schiacciare dall’ansia climatica, o possiamo trasformarla in azione collettiva, politica, culturale.
Capire cos’è l’Antropocene significa capire chi siamo diventati. E forse, da lì, iniziare a immaginare chi vogliamo essere.