Viviamo in un’epoca in cui i dati sono ovunque: contano i contagi, misurano l’inquinamento, tracciano i flussi migratori, prevedono l’inflazione, stimano la crescita, misurano la felicità, monitorano i conflitti. Ogni giorno siamo sommersi da grafici, percentuali, indici, proiezioni. I dati sono diventati la lingua della verità, della trasparenza, dell’oggettività. Ma sono davvero così neutrali? E cosa succede quando i dati entrano nel racconto del mondo?
In un tempo dominato dalla velocità dell’informazione e dalla polarizzazione dell’opinione, i dati sono spesso più strumenti di narrazione che di comprensione. Per questo, imparare a leggerli – e a smontarli – è diventato un atto essenziale per chiunque voglia orientarsi nella complessità del presente.
L’illusione della neutralità
Nel senso comune, i dati sono percepiti come puri, oggettivi, indiscutibili. “Ce lo dicono i dati” è diventata una formula magica che chiude ogni dibattito. Eppure, ogni dato è una scelta: cosa misurare, come misurarlo, con quali strumenti, con quale frequenza, in quale contesto, con quale finalità.
Ogni dato, per esistere, richiede un atto di interpretazione. È il frutto di una domanda, non di una verità spontanea. Anche la rappresentazione grafica – l’istogramma, il diagramma, la mappa – non è mai neutra: l’aspetto visivo guida la lettura e, spesso, l’emozione.
Un esempio? Durante la pandemia di Covid-19, la visualizzazione dei dati è stata cruciale per orientare la percezione pubblica: curve in salita, colori d’allerta, mappe termiche. Il modo in cui i dati venivano mostrati influenzava la paura, la fiducia, la conformità alle regole.
Dati come linguaggio del potere
Chi controlla i dati, spesso controlla anche la narrazione del reale. Governi, grandi aziende tecnologiche, istituzioni internazionali: sono loro i principali produttori e gestori di dati su larga scala. Questo conferisce loro un potere cognitivo e simbolico immenso.
Attraverso i dati si può costruire consenso, orientare politiche, giustificare decisioni, legittimare interventi. I dati diventano una forma di legittimazione tecnica del potere. Più difficile contestare un numero che un’opinione.
Questo vale per tutto: dalla giustificazione dell’austerità economica ai criteri per l’accesso al welfare, dalle strategie militari alle scelte ambientali. Ma cosa succede quando i dati sono incompleti, manipolabili, o semplicemente mal letti?
Quando i dati mancano (o ingannano)
Un problema diffuso è quello dei dati assenti: ciò che non viene misurato spesso non esiste nel discorso pubblico. Se non ci sono dati sui senzatetto, non ci saranno politiche per loro. Se non ci sono dati sull’impatto psicologico del lavoro precario, il problema resterà invisibile.
Un altro problema è l’uso strategico dei dati, o la cosiddetta “cherry picking”: selezionare solo le cifre che confermano la propria tesi, ignorando il resto. Succede in politica, nei media, nella comunicazione aziendale. Si prendono gli indicatori più favorevoli e li si amplificano, costruendo una realtà parziale.
E infine c’è il rischio della ipersemplificazione: ridurre fenomeni complessi a numeri facili da digerire, sacrificando il contesto, le sfumature, le contraddizioni. Un grafico può “parlare chiaro”, ma ciò che non dice è spesso ciò che conta davvero.
Big Data, piccoli sguardi?
Con l’avvento dei Big Data, si è diffusa l’idea che più dati significhi automaticamente più comprensione. Ma la quantità non garantisce qualità. Se manca il contesto interpretativo, se i dati non sono organizzati in una cornice teorica, se non si sa cosa cercare, i dati diventano un rumore di fondo.
Inoltre, l’analisi dei Big Data è spesso affidata ad algoritmi opachi, che decidono cosa è rilevante e cosa no, spesso senza che nessuno sappia davvero come funzionano. Il rischio è quello di una delega cieca alla macchina, e di una perdita progressiva della capacità critica.
Lo stesso vale per la profilazione online: i dati raccolti su di noi ogni giorno servono a creare modelli predittivi dei nostri comportamenti. Ma questi modelli non sono verità oggettive: sono autorappresentazioni statistiche, che finiscono per influenzare il modo in cui ci vediamo e ci comportiamo.
I dati come chiave di lettura (se usati bene)
Tutto ciò non significa che i dati siano inutili o pericolosi in sé. Al contrario: sono strumenti potentissimi, se usati con rigore, etica e senso critico.
Pensiamo agli indicatori di disuguaglianza, ai rapporti sul cambiamento climatico, alle statistiche sanitarie, ai dati sulla violenza di genere, ai tassi di alfabetizzazione o di povertà. Senza dati, molti problemi resterebbero invisibili, negati, ignorati. È proprio attraverso la misurazione che possiamo denunciare, analizzare, trasformare.
Ma per farlo, dobbiamo leggere i dati con consapevolezza. Capire chi li produce, con quali fini, cosa escludono, come vengono presentati. Serve un’alfabetizzazione critica ai dati, che andrebbe insegnata a scuola e praticata ogni giorno.
La responsabilità dei media
I media hanno un ruolo chiave nel rapporto tra dati e opinione pubblica. Troppe volte i dati vengono semplificati in modo sensazionalistico, privati del contesto, usati per costruire titoli acchiappa-click.
Un tasso di criminalità in aumento può essere il frutto di un cambiamento nelle modalità di denuncia, non di un reale incremento della violenza. Un aumento del PIL può nascondere un peggioramento della qualità della vita. Un sondaggio d’opinione può essere condizionato dal modo in cui vengono poste le domande.
Servirebbe, anche nel giornalismo, una cultura del dato che non sia solo visiva o decorativa, ma realmente esplicativa. I numeri dovrebbero essere strumenti per pensare, non armi per vincere un dibattito.
Verso un’etica del dato
In ultima analisi, ciò che serve è una nuova etica del dato. Un’etica che metta al centro la trasparenza, la comprensibilità, la giustizia informativa. Che riconosca i dati come beni comuni, non proprietà privata delle grandi piattaforme. Che restituisca alle persone il diritto di essere informate in modo corretto e completo.
Un mondo che comunica attraverso i dati non può essere lasciato nelle mani di pochi specialisti o di interessi privati. Serve una democratizzazione della conoscenza numerica. Serve uno sguardo che, attraverso i dati, non nasconda il reale, ma lo riveli nella sua complessità.
Perché solo se impariamo a leggere davvero i numeri, potremo capire meglio noi stessi. E il mondo che stiamo costruendo.