“Nel 1492 Cristoforo Colombo scoprì l’America.”
È così che iniziano, da decenni, migliaia di lezioni di storia. Eppure, quella frase così semplice nasconde una verità complessa, ambivalente, e spesso raccontata solo da un lato. Perché parlare di scoperta significa, inconsapevolmente, accettare una narrazione eurocentrica: come se un continente intero, abitato da milioni di persone, non esistesse finché un europeo non lo raggiunse.
Raccontare la scoperta dell’America significa allora fare i conti con due storie intrecciate: una fatta di mito, gloria, avventura; l’altra di violenza, colonizzazione e cancellazione. Solo mettendole insieme possiamo capire davvero cosa accadde — e perché oggi ne parliamo in modi così diversi.
Prima di Colombo: un continente già vivo
Quando Colombo partì alla ricerca di una nuova rotta per l’Asia, nel 1492, l’America non era una “terra vuota”. Era abitata da decine di civiltà complesse, con sistemi politici, religiosi, economici e artistici elaborati.
Nell’America Centrale e Meridionale fiorivano culture come quelle degli Aztechi, dei Maya e degli Inca, mentre in Nord America vivevano popolazioni indigene organizzate in tribù, confederazioni e villaggi, ciascuna con lingua, spiritualità e forme di governo proprie.
Parlare di “scoperta” implica ignorare questa ricchezza. È come se qualcuno sbarcasse in Europa e affermasse di averla appena “scoperta”, ignorando secoli di civiltà.
Il viaggio di Colombo: un errore diventato svolta storica
Cristoforo Colombo, genovese al servizio della Spagna, era convinto di poter raggiungere le Indie navigando verso occidente. Il 3 agosto 1492 partì da Palos con tre caravelle: Niña, Pinta e Santa Maria. Il 12 ottobre, approdò su un’isola delle Bahamas che battezzò San Salvador. Era convinto di essere vicino all’Asia, e per anni continuò a crederlo.
Quel viaggio non fu un caso isolato, ma l’inizio di una stagione di espansione europea, spinta dalla ricerca di oro, spezie e terre, e giustificata da motivi religiosi e geopolitici.
Colombo non mise mai piede sul continente nordamericano, ma aprì la via a un processo irreversibile: l’incontro-scontro tra due mondi.
Tra mito e propaganda: il “grande navigatore”
Per secoli, Colombo fu celebrato come eroe e genio visionario. Le sue imprese vennero mitizzate, specie nell’Ottocento, in un contesto di nazionalismi emergenti e retorica del “progresso”. In Italia, fu trasformato in simbolo dell’italianità nel mondo. Negli Stati Uniti, divenne figura chiave della narrativa patriottica.
Tuttavia, già nei suoi diari e nelle lettere di contemporanei, emergono aspetti più problematici: Colombo schiavizzò popolazioni indigene, ne deportò migliaia, e avviò un sistema coloniale violento che avrebbe ispirato — e peggiorato — nelle decadi successive.
Oggi, in molte parti del mondo, il 12 ottobre è diventato occasione di riflessione critica. Alcuni paesi latinoamericani parlano di “Giornata della Resistenza Indigena”, e negli Stati Uniti alcune città hanno sostituito il Columbus Day con l’Indigenous Peoples’ Day.
La conquista: oro, croci e spade
Dopo Colombo, arrivarono i conquistadores: uomini mossi da ambizione, fede e brama di ricchezza. Hernán Cortés conquistò l’impero azteco; Pizarro fece lo stesso con gli Inca. Gli spagnoli sfruttarono le divisioni interne alle popolazioni locali, le loro armi superiori e l’effetto devastante delle epidemie (vaiolo, influenza, morbillo) che decimarono le popolazioni indigene, mai esposte prima a questi virus.
La colonizzazione portò alla distruzione di intere culture, all’imposizione della lingua, della religione e dei modelli politici europei. Fu uno shock violento e irreversibile: decine di milioni di morti, schiavitù, conversioni forzate, perdita di terre, memoria, identità.
Eppure, fu anche un processo di ibridazione culturale, di incontri e sincretismi. In alcune zone, popoli indigeni riuscirono a mantenere parte delle proprie tradizioni, adattandole al nuovo contesto. La storia non è mai solo distruzione.
Un nuovo mondo (per l’Europa)
Per l’Europa, la scoperta dell’America significò potere, ricchezza, dominio. L’oro e l’argento estratti in America permisero alla Spagna di diventare una superpotenza. Ma segnarono anche l’inizio del capitalismo globale, dei traffici transatlantici, della tratta degli schiavi africani, che per tre secoli avrebbe alimentato le economie coloniali.
La cartografia cambiò, le mappe si ridisegnarono. Nacquero nuove scienze, si modificarono le abitudini alimentari (basti pensare a patate, pomodori, mais, cacao). Il mondo diventava sempre più interconnesso. Ma non più equilibrato.
Una storia ancora aperta
Oggi, parlare della scoperta dell’America significa anche fare i conti con la memoria. Con i suoi silenzi, le sue manipolazioni, i suoi simboli. Non si tratta di cancellare la storia, ma di guardarla in faccia. Con rispetto, ma senza retorica.
Cristoforo Colombo fu un uomo del suo tempo: né santo né demone. Ma il mondo che contribuì a creare ha lasciato cicatrici ancora visibili. In molti paesi del continente americano, i popoli indigeni vivono in condizioni di marginalità, povertà, discriminazione. Le ferite del passato non si sono chiuse. La conquista è finita. Ma le sue conseguenze no.
Ripensare la “scoperta”
Forse dovremmo smettere di chiamarla scoperta. E iniziare a parlarne come incontro tragico tra mondi, o inizio della colonizzazione europea delle Americhe. Solo così possiamo restituire dignità a chi non ha avuto voce nei libri di storia, e comprendere davvero la portata di quel 1492.
Perché la storia non cambia. Ma possiamo cambiare come la raccontiamo. E da quella narrazione può nascere un modo più giusto di abitare il presente.
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