Foto Paolo Borsellino: Wikipedia – foto in pubblico dominio secondo la normativa italiana (L. 633/1941, art. 92)
Nel 1992 Paolo Borsellino fu assassinato in via D’Amelio. A distanza di oltre trent’anni, il suo nome è diventato un simbolo. Ma dietro al simbolo c’è una vita fatta di scelte, responsabilità, rinunce e coraggio quotidiano.
Questo non è il racconto di una morte. È la storia di un magistrato che non si piegò mai, nemmeno quando fu lasciato solo. Un uomo dello Stato che visse la giustizia come servizio, e la coerenza come dovere civile.
Gli inizi: Palermo, la scelta della giustizia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940. Cresce nel quartiere della Kalsa, lo stesso di Giovanni Falcone. Le famiglie si conoscono, anche se i due non si frequentano ancora.
È uno studente brillante: a 22 anni si laurea in Giurisprudenza con 110 e lode all’Università di Palermo. Supera il concorso in magistratura nel 1963, diventando, a soli 23 anni, il più giovane magistrato d’Italia.
Inizia la carriera a Enna, ma presto viene trasferito in Sicilia occidentale: Mazara del Vallo, Monreale, poi Palermo. Sono anni in cui la mafia si evolve: da potere agrario a potere economico. E inizia a infiltrarsi silenziosamente nelle istituzioni e nei mercati.
A Monreale, negli anni ’70, inizia a lavorare con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, con cui incrocia per la prima volta la mafia dei traffici internazionali di droga e del controllo del territorio. Quando Basile viene ucciso nel 1980, Borsellino è tra i primi ad arrivare sul posto. Da quel giorno vive sotto scorta.
Palermo e il Pool Antimafia: un nuovo metodo
Dopo Monreale, torna a Palermo, dove entra nella squadra che ruota attorno al giudice Rocco Chinnici, padre del “metodo” antimafia: condividere informazioni, coordinare le indagini, costruire una rete solida tra magistrati.
Nel 1983 Chinnici viene ucciso da un’autobomba. A raccoglierne l’eredità è Antonino Caponnetto, che costituisce ufficialmente il Pool antimafia. Vi entrano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
Insieme lavorano come nessun altro aveva mai fatto prima. Non più singoli fascicoli isolati, ma un’indagine unitaria. Un corpo collettivo contro un sistema criminale collettivo.
Borsellino non è solo un giudice inquirente: è un instancabile organizzatore, motivatore, uomo di equilibrio. Porta umanità e rigore dentro un sistema sotto pressione. Condivide tutto con Falcone: l’analisi, la fatica, la consapevolezza del rischio.
L’Asinara: scrivere la storia sotto scorta
Nel 1985, per garantire la sicurezza del lavoro e dei magistrati, Falcone e Borsellino vengono trasferiti per un mese sull’isola dell’Asinara, nel vecchio carcere di massima sicurezza. Vivono lì, isolati dal mondo, con pochi vestiti, pochi strumenti, ma con l’obiettivo enorme di completare l’ordinanza-sentenza del maxiprocesso: oltre 8000 pagine, 475 imputati, 131 capi d’accusa.
Quel mese all’Asinara è durissimo, ma anche fondamentale. Insieme redigono il cuore dell’impianto accusatorio che porterà alla più grande condanna collettiva della mafia mai vista in Europa.
Borsellino in seguito ricorderà quel periodo come un tempo sospeso, “irreale”, ma necessario: “la nostra vita era diventata strumento di lavoro”.
Il Maxiprocesso: una svolta storica
Il processo si apre nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone il 10 febbraio 1986. L’impianto accusatorio regge. Le condanne arrivano: 360 ergastoli e migliaia di anni di carcere, riconoscendo ufficialmente l’esistenza della mafia come organizzazione strutturata, con vertici, affari, strategie.
Per la prima volta, lo Stato sembra capace di colpire il cuore del potere mafioso. E gran parte del merito è del lavoro del Pool. Ma già si preparano, dietro le quinte, le prime resistenze.
Marsala: un magistrato scomodo ma limpido
Nel 1986, Borsellino viene nominato procuratore capo a Marsala, in provincia di Trapani. Accetta l’incarico con entusiasmo, anche se il territorio è difficile, e la mafia silenziosa ma radicata.
È una procura piccola, ma lui la trasforma in un presidio di rigore. Forma giovani magistrati, imposta metodi di lavoro trasparenti, lotta contro il formalismo e la pigrizia di certe dinamiche giudiziarie.
A Marsala continua a lavorare come ha sempre fatto: senza scorciatoie, senza esibizionismi. In un’intervista dirà: “Il mio mestiere è cercare la verità. Tutto il resto è contorno”.
Rifiuta incarichi più comodi e visibili. Preferisce restare dove può essere più utile. “A me interessa il contenuto, non l’apparenza”, ripeteva spesso.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone: un’amicizia profonda, un destino condiviso
Con Giovanni Falcone, Borsellino condivide molto più che un metodo. Condivide una visione dello Stato, un’etica del lavoro, una responsabilità civile.
Falcone era più analitico, più strategico. Borsellino più comunicativo, più istintivo. Insieme erano complementari. Si rispettavano profondamente.
Dopo l’omicidio di Falcone a Capaci, il 23 maggio 1992, qualcosa in Borsellino si spezza. Ma non si arrende. In pubblico appare lucido, determinato. In privato, la tensione è fortissima.
Dice: “So che il tritolo è già arrivato a Palermo. So che io sarò il prossimo. Ma non ho paura.”
Il dovere fino all’ultimo giorno
Nelle ultime settimane di vita, Borsellino lavora senza tregua. Studia, prepara fascicoli, incontra collaboratori. Nonostante il pericolo imminente, non cambia abitudini, non si tira indietro.
Non fa proclami. Non cerca visibilità. Fa solo il suo dovere. Ogni singolo giorno.
Il 19 luglio 1992, alle ore 16:58, una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode in via D’Amelio, sotto casa della madre.
Paolo Borsellino muore, e con lui i cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.
Paolo Borsellino: un uomo di Stato, un magistrato esemplare
Paolo Borsellino non si considerava un eroe, non cercava gloria, né voleva essere celebrato.
Faceva rigorosamente il proprio dovere. Era un uomo di Stato, un funzionario pubblico che ha fatto bene il proprio mestiere, fino all’ultimo.
E forse è proprio in questo che ha dimostrato il suo coraggio più grande: restare fedele al proprio ruolo anche quando era difficile, anche quando era solo. La sua grandezza non è fatta di mito, ma di rigore, dignità, sobrietà.
Era umano, vulnerabile, ironico, colto, severo e generoso. Era il giudice che leggeva poesie ai ragazzi nelle scuole, che parlava di giustizia come bene comune, che credeva nella legalità non come slogan, ma come scelta quotidiana.
Diceva: “La lotta alla mafia non può essere solo di magistrati e poliziotti. Deve essere un movimento culturale e morale. Un’abitudine civile.”
Una coerenza che è ancora presente
Raccontare Paolo Borsellino oggi significa fare memoria attiva, non celebrativa.
Significa ricordare un uomo che ha vissuto con disciplina, sobrietà, coerenza, dentro uno Stato che spesso lo ha lasciato solo, ma che lui non ha mai abbandonato.
Il suo lascito inizia qui, prima ancora delle sue denunce pubbliche e delle sue parole più dure, che analizzeremo nel prossimo articolo. Perché Paolo Borsellino ci ha insegnato che la giustizia non è un’idea astratta. È una pratica quotidiana, esigente, faticosa. Ma necessaria.
Fonti e Approfondimenti
– Ministero dell’Interno: Paolo Borsellino
– Consiglio Superiore della Magistratura:
• Gli incarichi di direzione
• Il “disarmo” dell’antimafia: la denuncia pubblica di Borsellino
• La Procura nazionale antimafia e la riapertura dei termini del concorso. L’intervento della politica.